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di Francesco Pili

La giornata della Memoria

"Qui trovammo i nostri cari ad attenderci. Chi erano costoro? Babbo, mamma, fratelli e sorelle; stentai un poco a riconoscerli. Ne trovai dei nuovi, nati durante il nostro esilio..."

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Ricordare avvenimenti e fatti toccati a noi o ad altre persone, è un esercizio della nostra memoria che sviluppiamo a volte a nostro favore, altre volte a danno del nostro prossimo.

 

Da giovani non sempre c’è qualcosa da ricordare perché il nostro vissuto è stato breve.
I nostri genitori e gli anziani del paese hanno molto da rammentare, perché noi possiamo farne tesoro o almeno ci facciano riflettere.


La mia memoria mi porta agli anni 1936-1945, in un periodo particolare della mia esistenza e dei miei tre fratelli e due sorelle.

La Sardegna non bastava più per mandare avanti una bella e numerosa famiglia, perciò mio padre, sottufficiale dell’aviazione, accettò il trasferimento in Africa Settentrionale.


Erano gli ultimi mesi del 1938 quando partimmo per la Libia. Il regime fascista ci sistemò in case coloniche, prima ad Homs poi a Tripoli in zone vicino all’aeroporto dove il babbo prestava servizio.
Gli ultimi mesi del 38 e l’anno successivo il 39, passarono in modo tranquillo, adeguandoci al clima e alle usanze della popolazione Libica.
Si frequentava sia la scuola per cittadini italiani sia la chiesa cattolica.
Nei primi mesi del 1940 si addensarono nubi scure sul panorama internazionale: nubi che furono di pioggia, ma foriere di un conflitto di guerra.


Le zone dell’Africa Settentrionale (Tripoli, Misurata, Bengasi) erano le più coinvolte in questo rischio.


La colonia di Italiani era piuttosto folta, il regime, reputando che un eventuale conflitto fosse di poca durata, stabilì l’evacuazione in zone meno a rischio come l’Italia Meridionale e centrale, di giovani e delle giovani italiane dai quattro ai dodici anni.
Nella nostra famiglia gli interessati erano sei, una sorella di quattro anni, un fratello di sette e uno di otto anni, un’altra sorella di 10 anni, due fratelli di undici e dodici anni.


Come era logico in casa si viveva il dramma della imminente separazione. Il regime era deciso ad attuare il suo piano.


L’8 giugno 1940 era il giorno destinato alla partenza, i più piccoli presero l’avvenimento come un diversivo, una vacanza, per cui non fecero tanti drammi e pregiudizi, incoraggiati dall’entusiasmo e dall’ottimismo dei responsabili del regime.
I nostri genitori, specie mio padre che aveva afferrato la drammatica situazione, erano piuttosto preoccupati e pessimisti sull’andamento della situazione.

 

Gli interessati al distacco dai genitori erano circa diecimila bambini.


Avvenne l’imbarco su tre-quattro navi: destinazione Napoli. Il viaggio di traversata durò tre giorni, rimangono vaghi i particolari. Suppongo che i responsabili ci fecero passare le ore distraendoci con giochi e passatempi.


Sapemmo in seguito che la tanto temuta guerra scoppiò il 10 giugno, il giorno del nostro sbarco a Napoli ove assistemmo con terrore alla prima incursione aerea.


Da allora il contatto tra i sei fratelli divenne sporadico perché ci trasferirono in zone diverse specialmente nelle colonie marine dell’Adriatico: Rimini, Riccione, Pesaro e Cesenatico.
Lo scrivente (Francesco) si trovò spesso col fratello minore Piero.
La sorella maggiore Maddalena assieme alla piccola Sofia di quattro anni. I due fratelli maggiori Alberto e Antonio si ritrovarono in alcune colonie marine del centro Italia.


Purtroppo non abbiamo sempre potuto documentare gli spostamenti perché gli stazionamenti erano piuttosto brevi: tre quattro mesi per colonia.
Posso, come narratore documentare solo parziali soste in zone marine, montane e dei laghi del centro e del nord.
La prima colonia che ricordo fu Riccione: la lontananza dai genitori era attutita in maniera direi egregia da divertimenti, passatempi, cinema, gite, bagni e una discreta cucina.
L’organizzazione che il regime ha fornito era più che accettabile, avevano vigilatrici che curavano la nostra sicurezza e il nostro comportamento.
Anche l’aspetto spirituale era adeguato con lezioni di catechismo, messe nelle feste di precetto, occasioni per prime comunioni e cresime.
In questa prima colonia ci stetti circa due mesi assieme agli altri tre fratelli.
Nel frattempo mi riscontrarono un’infezione agli occhi, il tracoma, presa forse quando ancora ero a Tripoli.

Mi trasferirono in isolamento in una colonia non ben identificata nella zona del lago Trasimeno.
La cura risultò efficace perché riuscii a guarire nel giro di circa un mese e mezzo.
Nel frattempo frequentavo la seconda elementare, avendo fatto la prima a Tripoli tra bambini di lingua Italiana.


A guarigione avvenuta, con un ulteriore trasferimento mi ritrovai a Caprarola in quel di Viterbo nella grande villa dei Torlonia requisita per ospitarci.

La zona era bellissima: boschi, verde, belle sale, anche qui passatempi, divertimenti, proiezioni che facevano passare in secondo piano gli echi del conflitto che avanzava.
Pochi mesi in quel soggiorno fantastici e mi ritrovai in Alta Italia sul lago di Garda, precisamente a Riva.


Era l’estate del 1941, ricordo i bagni fatti nel lago, per la verità un po’ freddo, le passeggiate lungo la Gardesana Orientale e Occidentale. Un grande campo di calcio ci permetteva gli sfoghi sportivi.
Verso l’autunno del 1941, un ulteriore trasferimento mi vide sostare per poche settimane a Desenzano del Garda. La scuola continuava a singhiozzo per i brevi periodi che sostavamo nelle varie colonie. Le vigilatrici e i maestri non sempre erano gli stessi, quindi si può immaginare il nostro disagio e il nostro rendimento scolastico.


Nei primi mesi del 1942 fui trasferito a Pietra Ligure in provincia di Savona, fu il periodo più lungo di sosta tra i vari spostamenti che si succedettero anche dopo. Infatti rimasi in quella colonia fino al giugno del 1944 frequentando progressivamente la 3°, la 4° e la 5° elementare.


In questa colonia, con grande mia gioia, ritrovai il fratello più piccolo Piero e i due più grandi Alberto e Antonio.


Prima di descrivere gli avvenimenti succeduti in questo lungo soggiorno, devo precisare che nei periodi trascorsi da solo, le sorelle e i fratelli hanno vissuto più o meno le stesse vicissitudini di scuola, di passatempi, di indottrinamento politico, di rischi, di stenti e di trasferimenti, suppongo che tutti i nostri spostamenti, stati di salute e condizioni fisiche, fossero sempre accompagnati da completa documentazione specie per il personale che non sempre era lo stesso.
In questa colonia fummo inquadrati a seconda dell’età e della frequenza scolastica. Frequentai la terza elementare con maestri saltuari e improvvisati: le cognizioni di base ci vennero inculcate con fatica e in modo pressapochista.


Qualche segno di tristezza e insofferenza cominciava a serpeggiare tra noi perché non ci mandavano ancora a casa? Come sempre ci dicevano che era una situazione provvisoria, che il regime puntava molto sulla nostra crescita culturale e civica e che tra breve tutto sarebbe finito. La cultura generale consisteva, oltre alle lezioni in aula, anche in indottrinamenti da parte dei gerarchi del regime: cos’era il fascismo, il perché dell’alleanza con la Germania ed il Giappone e i nemici da combattere come l’Inghilterra che voleva toglierci le terre faticosamente ed eroicamente conquistate dell’Africa Settentrionale e Orientale (così dicevano) …


I paesi vicini a Pietra Ligure erano mete delle nostre gite e passeggiate: Loano con i suoi cantieri navali, Toirano con le sue grotte, Finale Ligure col grande campo sportivo per assistere oltre a incontri di vari sport anche a sfilate militari e di regime.
La stagione dei bagni era per noi la più attesa e la più gratificante. Il mare era vicino alla colonia, conosciuta con il nome di “XXVIII ottobre”; bella e grande spiaggia ove passavamo buona parte della giornata con bagni di acqua, bagni di sole ed esercizi di ginnastica.
Non veniva trascurata l’educazione religiosa con lezioni di catechismo, messe nelle feste comandate, preparazioni per le feste liturgiche solenni.
Ebbi l’occasione di fare la cresima: officiò il vescovo di Savona. Festa grande con pranzo speciale e dolci, il padrino, imposto per l’occasione dal regime, era un signore di mezza età, invalido di guerra. Ricordo i regali per l’occasione che furono una penna stilografica ed un pacchetto di caramelle.
Si visitavano le chiese ed i santuari vicini, come la chiesa dei frati cappuccini vicina alla colonia, la parrocchia di Pietra Ligure ed il santuario della Madonna del Carmelo vicino a Loano.

 

La vita di comunità trascorreva quasi tranquilla. Si era ai primi mesi del 1943 e frequentavo la 4° elementare. Ci si alzava al mattino verso le otto, si recitavano le prime preghiere, si facevano alcuni esercizi di ginnastica e di marcia e si andava a far colazione.
La mattina veniva completata con la frequenza alle lezioni scolastiche, con qualche ricreazione o gita scolastica sotto il profilo didattico.
Alle 12,30 il pranzo, consistente in un primo, un secondo, pane e una frutta, poi un riposino o ricreazione.
Al pomeriggio lezioni didattiche o canto o proiezioni per catechizzarci sulla bontà dell’organizzazione.
Alla sera, prima di cena, qualche gioco di società divisi in gruppi a seconda dell’età e della classe di frequenza.
Il sabato era particolare: tutto improntato sulla conoscenza e sull’approfondimento della gerarchia del partito: “Figli della lupa, Balilla, Avanguardisti, Camicie nere, ecc. La divisa che si indossava come Balilla, veniva scelta in funzione della corporatura: camicia nera, calzoni corti neri (o grigi), calze nere, foulard blu, cappello con fiocco e la “M” ben evidente sopra. Si facevano marce, sfilate, cori e canzoni imparate in giorni precedenti. Il clou della manifestazione era l’alzabandiera al mattino e l’ammaina bandiera alla sera. Era diventato orgoglio poter partecipare a turno all’ ”alza” e all’ ”ammaina” bandiera pronunciando frasi inneggianti al sistema di governo vigente.


Ci eravamo ormai affezionati al “sistema”, il nostro pensiero era però sempre rivolto ai nostri cari lontani. Quando ci faranno tornare a casa? “presto” era il ritornello dei nostri dirigenti; non mancava l’occasione di farci sentire i bollettini di guerra con le azioni eroiche delle nostre truppe, dell’aviazione e della marina. Da ciò che sentivamo, avevamo delle forze militari invincibili che piegavano il nemico in tutti i fronti.


Arrivò l’8 settembre, la nostra ignoranza politica non ci fece capire appieno il significato di “Armistizio”; ma quando ci spiegarono che era avvenuta la “caduta” del Fascismo, tra noi ci fu sconforto e lacrime. Era impossibile che una grande potenza alleata alla grande Germania e al potente Giappone, potesse avere un simile epilogo.
E il nostro futuro? Le promesse fatte? La data di avvicinamento ai nostri cari? Ci crollò il mondo addosso, preoccupati del disorientamento che vedemmo nel volto dei nostri accompagnatori, dal caos organizzativo che notammo e dai cambiamenti immediati riscontrati: prima cosa, il cambio al nome della colonia “XXVIII Ottobre” al quale eravamo molto affezionati.

 

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Il nostro comportamento ebbe delle variazioni tanto dal punto di vista dell’attaccamento alle regole di comunità quanto alle stesse convinzioni religiose. Pur non sentendone la necessità, il vitto ci sembrò scarso e di cattiva qualità, costretti quindi ad arrangiarci con le cose dei nostri stessi compagni, con raid negli orti dei contadini che confinavano con la nostra colonia.
Si aveva bisogno di evadere dalla comunità, saltando il cancello o il muro di cinta, si vagava tutto il giorno senza una meta determinata, finché alla sera, stanchi, si ritornava in sede: Il castigo più comune era l’isolamento ed il taglio dei viveri oltre a qualche castigo corporale.
La popolazione della zona cominciò a guardarci male, il caos dentro e fuori la colonia fu il risultato dell’8 settembre. Le caserme si vuotavano, le munizioni e le armi venivano prelevate in maniera indiscriminata, anche noi fummo coinvolti in questa “bagarre”.
Venivamo in possesso di materiale bellico. La nostra incoscienza era arrivata al punto di smontare, per curiosità, armi e munizioni. Purtroppo molti ci lasciarono le mani, gli occhi ed anche la vita.

 

Per i Tedeschi noi Italiani eravamo diventati nemici da controllare e combattere. Traditori.
Con la presenza dei Tedeschi anche in colonia, ogni tanto eravamo controllati e sottoposti a raid di aerei Inglesi e Americani. Le sirene d’allarme preannunciavano incursioni aeree che ci obbligavano in piena notte, ad evacuare nelle campagne vicine.
I nuovi vigilanti, non più legati alle volontà del regime, facevano di tutto per tenerci uniti con nuove promesse e miglior trattamento. La direttrice di una colonia di San Remo venne trasferita a Pietra
Ligure, a San Remo c’erano le mie due sorelle, se mi fossi comportato bene mi avrebbe portato a vederle. Promisi di migliorare il mio comportamento. Dopo alcuni giorni mi ritrovai a San Remo davanti alle sorelle: 14 anni una e 8 anni l’altra. La mia gioia nel rivederle dopo tre anni e mezzo fu immensa, ritornai a Pietra Ligure più caricato e più fiducioso nel futuro.
Eravamo nei primi mesi del 1944 e pur in mezzo a molte difficoltà riuscii a continuare e a terminare la quinta elementare, avevo già 10 anni e mezzo.
L’avanzata degli Americani e l’arretramento delle forze Tedesche, decise l’organizzazione di spostare le nostre sedi più a nord. Però chi doveva sobbarcarsi la responsabilità di tenere tanti giovani, ora che il fascismo era crollato e le cosiddette “colonie del regime” non potevano più ospitarci? In questa occasione emergente lo Stato rimase assente.
Quale la soluzione? Preti, Frati, Suore e Istituzioni di carità potevano essere il rimedio. E così fu, per tutti i ragazzi e ragazze in balia di una sistemazione.
A giugno del 1944 venni trasferito, senza la compagnia dei miei fratelli che furono mandati altrove, nella Val Seriana, a Clusone. Vi era un grande seminario, quello diocesano di Bergamo, dove venimmo ospitati.
I seminaristi tornarono a casa dopo la conclusione dell’anno scolastico e l’ambiente rimase tutto a nostra disposizione, essendo però un luogo adibito a studio e a preghiera, non piacque a molti, specie ai più grandicelli. L’ambiente però era bello, grande, in collina, in mezzo al verde e ad una pineta. Un bel campo sportivo ci dava la possibilità di sfogarci con vari sport.
La cosa strana, perché ritenuta molto provvisoria, era la convivenza di ragazzi e ragazze con le debite separazioni.
Era il periodo della guerra civile, specie in alta Italia: ci trovavamo in mezzo alla milizia repubblichina che sosteneva ancora i resti del fascismo con la Repubblica di Salò e di notte la discesa dai monti di gruppi di partigiani o “ribelli” come venivano chiamati dalla controparte.
Il nostro entusiasmo era controllato: sorrisi da una parte e dall’altra senza tanto sbilanciarci. Così era il consiglio dei nostri accompagnatori laici e il personale religioso del seminario.

Per trascorrere la giornata, piuttosto lunga in estate, ci proposero di andare nelle famiglie di Clusone per fare qualche attività: riordino giardino, attenzione all’orto o agli animali domestici, compere. Ne ottenevamo un compenso per le nostre piccole spese, oltre che a tenerci occupati per una parte della giornata.
La zona era molto amena: quindi possibilità di passeggiate e gite nei boschi e nella vicina Presolana.
Il vitto era discreto però noi giovani avevamo sempre più bisogno di mangiare. Un giorno mi introdussi abusivamente nella dispensa. Fui beccato con le “mani nella marmellata”, il castigo che mi meritai fu una alimentazione quasi esclusivamente di marmellata, per una settimana: per vari giorni poi non riuscii a masticare alimenti solidi per il mal di denti. In generale però il soggiorno è stato più che accettabile. Si aggiunse anche la simpatia che ci mostrò la popolazione di Clusone
avendo afferrato la nostra situazione ed il nostro dramma di profughi.
Ci risiamo, nuovo trasferimento. Dovevamo lasciare libero l’ambiente per i seminaristi perché iniziava l’anno scolastico. Una parte dei ragazzi e tutte le ragazze andarono in località di conventi o collegi della Lombardia tenuti dai Padri Somaschi, dagli Artigianelli di Don Orione e dalle Suore Orsoline; i restanti ragazzi andarono a Milano nell’istituto dei Salesiani di Don Bosco.
Appena entrati nel grandioso stabile, ci convincemmo subito che sarebbe stato un luogo ove ci saremmo trovati bene sotto tutti gli aspetti. Il personale salesiano è composto di laici, chiamati coadiutori, adibiti ai reparti professionali di arti e mestieri e di preti, che oltre alle funzioni religiose erano anche preposti per l’insegnamento delle materie letterarie e scientifiche, sia i preti che i coadiutori si dettero molto da fare per farci trovare a nostro agio nel nuovo ambiente.
L’istituto era composto da una grande chiesa centrale e da due ali laterali a forma di “L”, la prima ospitava studenti che frequentavano il ginnasio e il liceo classico, la seconda adibita ad aule e reparti di lavorazione come sartoria, calzoleria, falegnameria, meccanica, elettro tecnica ed arti grafiche.
Vi erano quattro grandi cortili che permettevano lo svolgimento delle ricreazioni e dei vari sport. In aggiunta vi era un caseggiato per le attività di oratorio della parrocchia, oltre ad un ulteriore caseggiato che ospitava le Suore Salesiane di Maria Ausiliatrice adibite alle mansioni di cucina e lavanderia.
Gli studenti che frequentavano il ginnasio ed il liceo entravano a scuola al mattino ed uscivano alla sera; quindi erano semiconvittori. Gli artigiani, invece, avevano la condizione di convittori: il loro ritorno nelle famiglie era previsto per le vacanze pasquali, le vacanze natalizie e vacanze di fine anno. Per noi profughi non vi era altra soluzione che rimanere sempre in collegio (250 in totale).
La prima attività che i salesiani ci fecero fare fu la scelta del mestiere o professione. Io scelsi il mestiere del tipografo, non perché sapessi in cosa consisteva, ma per curiosità e per la presenza delle macchine da stampa. Frequentando il reparto mi piacque tanto, imparai il mestiere e successivamente diventai perfino insegnante.
L’attività giornaliera era molto variegata, non avevamo momenti della giornata di sosta incontrollata e quindi di ozio come capitava nelle colonie.
La mattinata cominciava alle 6,30 con la sveglia; alle 7,00 nell’attiguo salone di studio si rifletteva, si pensava, si facevano eventuali compiti; alle 7,15 tutti nella cappella per le preghiere e la messa (attività inizialmente mal sopportata), alle 8,00 colazione e un breve momento di ricreazione, alle 8,30 si andava nei reparti di lavorazione ove ci si perfezionava nell’arte scelta, verso le 10,30 merenda e dieci minuti di relax, alle 12,30 pranzo e successivamente ricreazione.
Lo sport più frequentato era il calcio, palla a volo e giochi di società, nelle giornate piovose, si sfruttava il grande porticato che circondava il caseggiato, dove potevamo, anche se in maniera ridotta, muoverci e giocare. Alle 14,00 nella grande aula di studio, si andava per un riposino o eventuale ripasso delle lezioni e alle 14,30 si ritornava nei reparti di lavorazione. Alle 16,15 merenda e ricreazione. Alle 17,00 tutti nelle rispettive aule per le lezioni letterarie e scientifiche; si frequentava l’avviamento professionale (3 anni) e la scuola tecnica (2 anni); si usciva dopo un quinquennio col diploma di specializzazione. Le lezioni duravano fino alle 20,00 quindi a cena. Dalle 20,45 alle 21,00 un po’ di ricreazione e le preghiere della sera, poi a letto, l’alternativa per non andare subito a dormire era di partecipare ad attività culturali, sportive o religiose.

La disciplina di collegio era piuttosto stretta, gli educatori non transigevano sul turpiloquio, sul disordine, sulle baruffe, sul silenzio nei momenti canonici, sulla pulizia del corpo e sull’impegno scolastico e di laboratorio.
Erano i primi mesi del 1945, quindi un dopoguerra un po' burrascoso, di paure e alcune volte di terrore. Controlli continui venivano effettuati  da plotoni tedeschi e bande di partigiani, gli uni e gli altri cercavano nel nostro ambiente eventuali personaggi politici o rifugiati o imboscati. Un grande merito va dato ai salesiani che riuscivano con fermezza e diplomazia a sistemare qualsiasi vertenza tra le parti e mettere in condizioni di tranquillità la popolazione scolastica.
In alcune notti, anche se la guerra era finita, vi erano delle incursioni aeree che sganciavano delle bombe. L’aereo, spesso isolato, veniva denominato “Pippo” perché arrivava all’improvviso senza preannunciarsi con sirena d’allarme come capitava negli anni precedenti, per questo appena si sentiva un rombo d’aereo, pieni di paura si scendeva in rifugio o in cantina, qui si rimaneva per qualche ora
fin quando tutto tornava tranquillo.
Il 25 aprile trovò Milano in fibrillazione, da una parte per gli avvenimenti orribili e detestabili capitati al capo dell’ex partito fascista e ad alcuni gerarchi, dall’altra di entusiasmo per la definitiva conclusione del conflitto mondiale e civile.
La scuola e le nozioni professionali continuarono in modo regolare.
Finito l’anno scolastico la direzione dell’istituto pensò di farci passare alcune settimane di villeggiatura: ci portò a Vendrogno, in Val Sassina, ove c’era un gran caseggiato che fungeva da istituto scolastico per la 5°elementare e la prima media durante l’anno e come colonia estiva a fine anno scolastico. Passammo un mese di spensieratezza e di passatempi gioiosi.
Nel frattempo vi erano stati contatti con i nostri familiari, Sicilia, Calabria, Campania e Sardegna erano le regioni che interessavano noi ragazzi. La Sardegna mi interessava più che altro, perché venni a sapere che i miei, dopo numerose e drammatiche peripezie, rientrarono nella zona ove abitavamo prima di partire per la Libia: Cagliari, Serrenti e Seneghe.

Ebbi contatti anche con i miei fratelli e le sorelle. Mentre io ero a Milano dai padri salesiani, il fratello minore Piero era a Monza dagli Artigianelli di Don Orione e le sorelle erano a Bergamo dalle Suore Orsoline, infine i due fratelli più grandi erano in Romagna in una scuola agraria presso i Frati Cappuccini.
In ottobre eravamo ancora a Milano; cominciò l’anno scolastico con la frequentazione del secondo anno di avviamento professionale. Ed ecco che ai primi di novembre arriva la tanto attesa notizia per la partenza verso i paesi dei nostri cari.
Le mie sorelle e il fratello più piccolo vennero da me in istituto e da lì in treno siamo partiti per Civitavecchia. I miei due fratelli più grandi, venni poi a sapere che erano già arrivati in paese. Mi staccai dal collegio dei Salesiani con un po' di tristezza, ma euforico perché avrei rivisto dopo 5 anni e 5 mesi, tutti i miei cari.
Era l’8 di novembre quando prendemmo tutti e quattro il treno dalla stazione di Milano. Si può immaginare, in quell’epoca, come erano i convogli ferroviari, ma la nostra euforia sopperì anche a quei disagi.
Arrivammo il giorno dopo verso sera a Civitavecchia, una nave militare ci attendeva per portarci ad Olbia, dove arrivammo dopo una traversata da incubo il 10 novembre. Prendemmo la tradotta per Cagliari, scendemmo ad Oristano e qui con il “postale” alla volta di Seneghe. Qui trovammo i nostri cari ad attenderci. Chi erano costoro? Babbo, mamma, fratelli e sorelle; stentai un poco a riconoscerli. Ne trovai dei nuovi, nati durante il nostro esilio. Un fratello, nato nel 1941, visse fino al 1944; non potemmo neanche conoscerlo perché morì prima del nostro arrivo.
Il nostro arrivo riempì tutti di gioia, ma mise in seria difficoltà i miei genitori. Sei bocche da sfamare e da vestire contemporaneamente fu un grosso problema. La provvidenza non ci abbandonò e continuò a proteggerci come aveva fatto nei 5 anni e mezzo trascorsi. Essa si manifestò anche con il buon cuore dei paesani. Infine l’operosità del babbo e l’ingegnosità della mamma, fecero sì che la numerosa famiglia continuasse nella normalità la sua vita.

 

Tutto è bene quel che finisce bene; partiti da Tripoli in sei, l’8 giugno 1940, tornammo tutti a casa il 10 novembre del 1945.


Deo gratias.

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Seneghe